Ma si sa, in America anche i pomodori sanno (o sono) di plastica e le startup si vendono al miglior offerente (di solito fondi e VC con calcolatrice in mano e fumo nel cervello) prima ancora di fare un vero prodotto che si mangia.
C’è stato un momento, poco tempo fa – diciamo tra il 2018 e il 2021, ma sembrava il 2050 – in cui l’alt-meat era la nuova rivoluzione francese: ghigliottina per l’hamburger classico, viva il futuro verde, sostenibile e 100% marketing-friendly. B Corp, meno emissioni, tutti sul carro.
Poi, come tutte le rivoluzioni gonfiate dal capitale, è esplosa.
L’ennesimo, solito, deja-vu. L’ennesimo, solito, regalo dei sogni di gloria da American Dream.
Impossible Foods adesso dice che farà un burger 50% carne vera. Come dire: siamo vegani, ma solo il weekend. Solo quando facciamo felici le borse.
Ma poi cos’è la carne vera?
Beyond Meat è passata in borsa da 234 dollari a 3, tipo moneta spicciola per il carrello.
Già il fatto che misuriamo il valore di un progetto su quanto vale in borsa, mamma mia.
Meati, Hooray Foods, Nowadays: boom, puff, bye.
L’hype si è sgonfiato più velocemente di un unicorno gonfiabile in piscina il giorno di ferragosto mentre il maschio alfa griglia, un colabrodo nel business plan.
E i numeri? Sanguinano latte di pisello: -7% vendite a valore in USA 2024, -11% a unità, quota di mercato bloccata all’1,7%.
In Europa? In Italia? Più che boom, è mmmh.
Anzi, muuuuuuuuuuuuuu.
C’è, ma non esplode.
C’è, ma sembra il cugino timido della rivoluzione.
In Italia, poi, figurati. Dire "burger vegetale" è come bestemmiare con l’accento su "seitan".
I buyer lo mettono a scaffale, ma con la stessa fiducia con cui metti un cactus in una piscina.
Se quando presenti il tuo prodotto “innovativo” a un buyer e questo (qui il maschile è voluto) non lo vuole nemmeno assaggiare, qui partiamo male signora mia.
Eppure non è morto. Non è esploso. È lì, in stallo.
Si guarda allo specchio e dice: ma chi sono io davvero? Una polpetta di piselli con identità di crisi.
Perché? Forse perché abbiamo sbagliato approccio.
Abbiamo pensato che bastasse una conferenza stampa e un post su LinkedIn per cambiare il mondo.
(No ma davvero, quanto è diventato cringe oggi Linkedin?)
Abbiamo creduto che il cibo fosse una startup, il sapore un pitch, l’innovazione un piano industriale. Abbiamo preso il burger e l’abbiamo tritato nel frullatore del ROI. Poteva solo uscirne poltiglia. Per non dirle altro.
Il problema non è il gusto, il prezzo, la shelf life. È l’idea stessa di futuro.
È la dittatura dell’EBITDA, il regno delle KPI, il culto dei round A-B-C-Z-Zzzzzz.
Tutti a inseguire la prossima unicornata, nessuno che si ferma a cucinare.
E se fosse ora di tornare al mercatino? Di cucinare burger vegetali con le mani, non con l’excel? Di smettere di dire "disruption" e “rivoluzionare” e cominciare a dire "cena"?
Il plant-based non è in crisi.
È il capitalismo delle slide che lo sta soffocando.
Non è la lenticchia il problema. È il controllo di gestione.
Non è il burger vegetale a puzzare. È l’aria nella stanza dei fondatori. O meglio, dei loro contabili.
Ma quindi cos’è andata storto?
Cioè davvero storto, tipo la bistecca di Wagyu servita a Davos?
Un paio di cose. Più o meno tutte.
Prima hanno pensato di vendere cibo come fosse codice, come fosse un Bitcoin. Beyond Meat quotata come se fosse la nuova Ethereum, IPO sparata a +163% manco fosse la benzina del futuro. Peccato che qui non si scala con le API, ma con la padella. E con la nonna.
Poi i prezzi. La “carne” vegetale costa ancora più della carne vera. O meglio sarebbe da dire che la carne “vera” costa meno della carne veg per una serie di motivi politici e economici che mi taccio altrimenti finisco per fare un libro e non una newsletter. In tempi di inflazione galoppante e salari da fast fashion, però, il risultato non cambia: chi la compra?
Solo chi ha letto Sapiens e ha l’abbonamento a The Guardian.
Poi ancora: il marketing. Vendere finta carne come healthy è come vendere una trapunta dicendo che è un aquilone. La gente apre l’etichetta, legge 24 ingredienti tra cui "emoglobina vegetale" e si sente truffata, come al brunch aziendale.
Risultato? panico da slide. O ti tremano le polpette, o fai il pivot.
Impossible ci prova col blend: 50% carne vera. Sì, hai capito. Il brand che voleva ghigliottinare il manzo, ora lo corteggia. L'amante segreto dell'hamburger. Succede anche in Italia e in Europa.
Io, boh.
Tutti felici? Eh no.
Perché in fondo qui non si tratta di trovare il sapore giusto, ma di chiedersi cosa vogliamo davvero. Un burger che sembra carne? O un nuovo alfabeto gastronomico?
Forse il vero bug non è tecnologico, è culturale. Filosofico. Politico. Continuiamo a inseguire l’imitazione perché siamo incapaci di desiderare altro. Perché un burger di lenticchie non basta mai. Perché un piatto di fagioli ci sembra povero, triste, colpa. Quando invece è già la soluzione. Ma non c'è abbastanza margine. Non si pitcha bene.
Perché non è la carne a essere difficile da abbandonare, è il nostro bisogno di surrogati, di scenografie, di storie da raccontare al supermercato. E quindi blendizziamo. Camuffiamo. Trasformiamo il problema in business model.
Al solito.
Perché la carne "mezzo e mezzo", ne abbiamo già parlato, è il peggior compromesso. Il figlio cinico della rassegnazione e del controllo di gestione. Non migliora il mondo. Ma lo fa sentire migliorato, che è il trucchetto preferito del capitalismo.
Perché continuiamo a spostare l’asticella verso il basso. Sempre un po’ più giù. Tanto il consumatore non capisce un pisello proteico, e i fondi hanno soldi da buttare. Fino alla prossima guerra, al prossimo blackout, alla prossima IPO fallita con entusiasmo.
E allora? Forse non serve il prossimo burger. Forse serve smettere di pensare al cibo come problema da scalare. Smettere di chiedere “quanta carne posso rimuovere?” e iniziare a chiederci “quanto senso posso recuperare?”.
Non è la lenticchia a doverci assomigliare. Siamo noi che dobbiamo assomigliare alla lenticchia.
Tre domande che ci restano in bocca (come il finto aroma pollo)
Nella scorsa newsletter qualcuno mi ha fatto notare che faccio solo domande e non do mai risposte. Bravo, hai centrato proprio il punto. Quindi, ecco tre domande per te:
Hai mai assaggiato un burger vegetale che ti ha davvero emozionato? Dove? Come? Perché?
Pensi che il plant-based debba imitare la carne... o inventarsi un’altra grammatica?
Che succede se smettiamo di innovare per scalare, e iniziamo a innovare per restare?
Rispondi alla mail o rispondi qui:
Cose di servizio, segnalazioni, voci nel vento:
Ho letto più report sulle polpette di piselli che libri quest’anno. Mandami una camomilla in banconote non segnate (vedi sotto)
Sto preparando una mappa dei produttori locali e agricoli che vendono alternative vegetali fatte bene. Se ne conosci, scrivimi. Se ne produci, send samples :)
Condividi questa newsletter con il tuo controllo di gestione. O con il tuo salumiere.
E se sei arrivata fino qui, la parola segreta di oggi è: EMOGLOBINAVEGETALE.
Interessante la traiettoria di Vegetarische Slager, prima comprato da Unilever poi tornato indipendente (e fornitore ufficiale di Burger King BENELUX e Germania). Non so, io in nord Europa sto trovando una normalizzazione delle opzioni veg nella “carne” che al sud non esiste (in Portogallo c’è un burger veg da Mac, in Finlandia c’è tutto un menu parallelo Veg e stessa cosa in Germania etc).
Forse sono morte solo dove esistono i Lollobrigida, perché Big Meat è ancora più potente di Big Tofu?
Forgive me for using a translator to turn your newsletter into English (I'm nosey, and my language skills are terrible), but having invested in a bunch of 'alt meat' companies over the years, I've watched them all fail. The hype doesn't live up to reality. I'm a huge fan of a whole food plant-based diet, and these fake meats don't really appeal to me much. I created a recipe remakably similar to 'Juicy Marbles' 'steaks' (EUR12 a pack) at home, and they cost about EUR1 each to make. The pricing and ingredients don't necessarily appeal to a lot of vegans, and the hatred and cognitive dissonace brigade won't touch them - leaving a potentially multi-billion market in the toilet!