Tempo fa lessi un articolo che diceva, senza ironia, che “la pizza più buona si mangia a Napoli”.
Eeeesticazzi, disse il grande capo.
Una di quelle verità che sembrano granitiche finché non ti rendi conto che non esiste neanche un’unica Napoli, figurarsi un’unica pizza.
Mi è tornato in mente ieri (cioè domenica scorsa, per chi legge) mentre rientravo dalla Via degli Dei, coi piedi una crema grazie ai calzini super-top-compressivi-da-pensionato-che-gioca-a-bocce e zero vesciche secondo il VAR e le ossa delle spalle infastidite da un’iperpresenza del mio corpo.
Per cinque giorni ho camminato in mezzo alla pasta fresca, i tortelli di patate soprattutto. Tortelli che cambiavano ogni tre chilometri: più patata, meno aglio, una punta di noce moscata, un’erba selvatica misteriosa, una sfoglia più ruvida. Grasso di maiale dentro si, grasso di maiale dentro no, e io veg a farmi friggere.
Tortelli che ti dicono che la geografia è una questione di mano, non di magna charta.
E allora mi è venuto da chiedermi:
cos’è la tradizione gastronomica?
E soprattutto, da dove arriva l’idea che per mangiare "autentico" si debba prendere un aereo? Un treno? Un feed? Un reel?
C’è un momento nella vita di tutti noi in cui ci sediamo in un ristorantino super local in un vicolo qualunque di Kyoto, addentiamo un ramen che “giuro, l’ha fatto la nonna giapponese con le sue mani” e pensiamo: “Ecco, questo è il vero Giappone”.
Poi torniamo a casa, apriamo Uber Eats e scopriamo che lo stesso ramen lo consegna un tipo di nome Michael nel quartiere accanto, uscito da una cucina condivisa dove il cuoco si chiama Pino.
Game over.
Il turismo gastronomico, quello vecchio stile, è morto.
Finito.
Troppo facile, troppo accessibile, troppo fotografato. Che senso ha volare a Parigi per Ladurée se puoi ordinare i macaron su qualsiasi delivery di merda mentre binge-watchi la quarta stagione di The Bear? Spoiler: nessuno.
E magari sono macaron decongelati fatti da un’industria in Germania Est.
Sicuro.
Ma aspetta, non chiudere l’articolo e non chiamare subito Ryanair per cancellare il tuo low cost per Copenaghen di questo luglio.
Non sto dicendo che viaggiare per il cibo non abbia più senso. Anzi, sta cambiando tutto.
Oggi, il vero viaggio è nei luoghi dove i cibi nascono, dove gli ingredienti si mescolano e dove le cucine diventano ibride, spurie, contaminate.
E no, non è una brutta cosa.
Dove succede la magia?
Madrid. Non per tapas e sangria e ancora peggio la paella fatta in serie, ma per un ristorante cinese de periferia dove ordini su WeChat e bevi baijiu con Padrón peppers.
Londra, dove il suya — kebab speziato africano — è stato reinventato in chiave british.
Lima, con i suoi piatti Nikkei che sono più giapponesi del sushi, ma con dentro il cuore del Perù.
Le nuove cucine non hanno più "casa".
Nascono nei margini, nei mercati, nelle comunità migranti.
Sono cucine senza passaporto, ma con un’identità pazzesca.
E allora, che fare?
Se non serve più viaggiare per assaggiare il mondo, forse è arrivato il momento di viaggiare per capire il mondo.
Tipo: hai mai pensato di visitare il Mugello per scoprire le cinquanta sfumature di tortello di patate? Parla con i nonni e le nonne del circoletto Arci di Traversa, sotto la Futa.
O di infilarti in un vigneto biodinamico nel piacentino per scoprire che anche il vino ha un lato punk mentre pensavi che lì sotto il Po facessero solo vini di merda.
Non è (solo) questione di cibo
Perché alla fine non si tratta solo di mangiare. Si tratta di capire chi siamo e come il mondo cambia.
Si tratta di camminare per il 13° arrondissement di Parigi e vedere come la cucina asiatica o marocchina sta ridefinendo cosa significa essere francesi.
O di sedersi a un pop-up a Toronto dove un taco ha dentro miso (beh, quello anche qui) e un pizzico di radici yoruba.
Si tratta di vivere il cibo come esperienza culturale, non come souvenir da Instagram.
Quindi no, non devi più andare a Napoli per la pizza perfetta.
Ma se vai, fallo per capire perché quella pizza non sarebbe mai potuta nascere altrove.
E magari torna con la storia di chi l’ha fatta, non solo col gusto della mozzarella e con la storiella dell’acqua del Vesuvio, è lei che fa la pizza buona.
La sindrome di Netflix
Il capitalismo, come sempre, è bravissimo a prendere qualcosa di vivo, vibrante, nato dal bisogno (e dal sudore) delle comunità migranti, e a trasformarlo in un’esperienza vendibile, impacchettata per il consumo globale.
Il ramen fatto con amore dal migrante giapponese che cerca di sopravvivere a Los Angeles diventa il “ramen più cool della città” a 20 dollari a ciotola, servito in un locale di design che “omaggia” la tradizione, ma dove il cuoco non ha mai messo piede in Asia.
Ci sta? Non ci sta? Tu che dici?
Questa appropriazione non è solo estetica, è anche economica.
Le cucine ibride nascono spesso dalla lotta, dalla necessità, dall’immigrazione forzata.
Ma quando diventano moda, chi trae profitto? Chi può permettersi di aprire il "fusion bar" fighetto in centro città?
Sicuramente non i migranti che hanno inventato quei sapori mentre cercavano di adattarsi a un nuovo mondo con quello che avevano a disposizione.
E allora, mentre celebriamo queste cucine spurie (e sì, sono incredibili), chiediamoci anche:
chi sta guadagnando?
chi sta perdendo?
E cosa ci rimane davvero nel piatto?
Il vero viaggio non è solo tra gli ingredienti o nei ristoranti di tendenza, ma nella consapevolezza di come il cibo rifletta le disuguaglianze globali.
E anche urbane. Perché la turistificazione non è solo Airbnb e tuk tuk elettrici.
È appropriazione sistematica dello spazio (hai letto di come Bezos distruggerà Venezia tra poco?), è espulsione lenta delle comunità locali, è la replica infinita della stessa pizzeria “artigianale” tra Reykjavik e Palermo.
Bada come la fuma, dicevano ieri senza sosta nella afosa Firenze.
Poi dicono che Boris non aveva ragione, “i toscani…” cit.
Il food tourism che piace a Instagram è solo un’altra forma di estrazione coloniale.
Solo che ora ha il filtro València.
TOURISTS GO HOME
Tourists go home quindi? Si, no, dipende?
Non è più solo una scritta sul muro di Gràcia o Kreuzberg. È la voce strozzata di chi non riesce più a permettersi il proprio quartiere e ancora meno il proprio centro storico.
È l’urlo silenzioso del commerciante che apre solo per i ponti. È il profumo di una cucina che non torna più dal retrobottega.
Chi è il turista, oggi?
Chi resta, e chi parte?
Quando smettiamo di abitare, e iniziamo a visitare la nostra stessa città?
E se la pizza “verace” fosse il souvenir, e non il piatto?
Allora forse non serve più viaggiare per assaggiare il mondo.
Serve restare.
E riconoscere il mondo che ci stanno togliendo da sotto i piedi, un Airbnb alla volta.
Il cibo non è mai neutro. È la geografia masticata. È identità in fermento. È un piatto che racconta chi può cucinare, e chi può solo ordinare.
Il vero viaggio?
È sedersi a tavola e chiedersi “chi manca qui?”
🍋 Digestivo
Ho finito la Via degli Dei, ma ho cominciato altre cento cose. Ovvio.
Tu che cammini hai fatto? Voglio farne almeno uno all’anno se non due.
Consigli are welcome.Vorrei scrivere un nuovo libro che non è un libro di cucina ma un libro sul no/lo definito da me e dal mio editore così: breviario postumano del bere consapevole.
Ti chiedo, se fossi già morta, tracanneresti alcoolici come se, per l'appunto, non ci fosse un domani? Oppure?Se conosci storie di cucine ibride, comunità che cucinano, fusion non da menù, scrivimi. Andiamoci.
Se ti è piaciuta questa newsletter, condividila con un’amica gastro-esiliata, un turista pentito o un Franco che consegna ramen a domicilio.
Se sei arrivato fino a qui, scrivimi la parola TORTELLODELMUGELLO.
È stupida. Ma giusta.
Con affetto e tortelli,
baci,
Riccardo
È davvero interessante pensare a questa alimentazione che si reinventa. C’è qualcosa di transculturale in gioco (come direbbe Fernando Ortiz, con la sua metafora del piatto ajiaco). Non è più giapponese, peruviano o marocchino: è un’altra cosa, qualcosa di nuovo, che nasce dall’incontro e dalla reinvenzione, senza più pretendere di restare fedele all’origine. Ma ha ancora senso cercare quell’origine? O si tratta solo di un esercizio nostalgico; o peggio, colonialista?
TORTELLODELMUGELLO