C’era una volta una fragola. E costava 19 dollari.
Non una fragola qualunque, ma una creatura mitologica, perfetta, simmetrica, lucida e brillante come una diamante e adagiata sotto una teca trasparente.
Non solo cibo, ma un’idea di cibo, un’idea di essenza e di presenza, un concetto astratto e virtuale più che un prodotto agricolo.
Contestualizzo.
Qualche giorno fa mi ha colpito nella mia bollicina social e web la discussione nata attorno alla fragola (si, fragola: singolare) venduta a 19 dollari l’una. Si, l’una, non al kg.
E dove? Da Erewhon, un retail americano, californiano, diventato la nuova Mecca dei gastro chic ricchi e senza vergogna.
Lascio un link qui per approfondire, se ti va.
Hai letto?
Sedimentiamo.
Che ne pensi?
Il tema, per me, è che questa fragola non esiste nel mondo reale. È stata costruita. È il risultato di una narrazione, di un sistema che prende qualcosa di semplicissimo come un frutto e lo trasforma in oggetto del desiderio.
Non è solo una fragola: è uno status symbol. (che termine anni ‘90 lo so).
Forse allora la vera domanda non è "vale davvero 19 dollari?". Anche perché, mi vien da dire, la risposta la sappiamo già.
La vera domanda è: "Cosa stiamo (anzi, costa stanno) davvero pagando?"
E ancora più in profondità nella tana del Bianconiglio: "Chi ci guadagna e chi ci perde in questa transazione?"
Back to the roots.
Perché un prodotto costa tanto? Eh, signora mia.
Istintivamente, pensiamo alla qualità, alla rarità, al lavoro artigianale dietro. Al saper fare, alla cura, la manualità, l’attenzione maniacale.
Ma nel capitalismo avanzato del ventunesimo secolo il prezzo di un bene non è più una funzione diretta del suo valore produttivo. È il risultato di una costruzione sociale.
Il prezzo della fragola da 19$ non si spiega così solo con la sua origine giapponese o con la sua produzione iperselezionata.
Si spiega con il modo in cui il mercato crea il lusso, seguendo uno schema ripetuto fino alla nausea:
1. Si prende un prodotto comune (fragola, acqua, pane, caffè, continua tu)
2. Lo si rende esclusivo (varietà rara, produzione limitata, estetica perfetta)
3. Lo si avvolge in una narrazione premium (benessere, unicità, esperienza sensoriale)
4. Si alza il prezzo fino a renderlo irraggiungibile per la maggioranza (perché il vero lusso è l’esclusione degli altri)
E qui arriva il punto critico: se il lusso un tempo era determinato dalla scarsità reale, oggi è una scarsità indotta, almeno finché la crisi climatica non ci riporterà a nutrirci di bacche e radici.
Il mercato non risponde più a un bisogno concreto, ma a una logica di esclusione.
E questo di nuovo ci porta a chiederci: qual è il valore reale di una fragola?
Posso ipotizzare almeno tre fattori principali che determinano il prezzo assurdo di questa fragola:
1. LA FILIERA CHE SI MANGIA TUTTO
Il produttore giapponese guadagna probabilmente poco o nulla su quei 19$. La maggior parte del valore viene assorbita dalla distribuzione, dal marketing, dal packaging, dalla fighettosità della catena di retail più in hype del mondo occidentale, dall’intero sistema che si inserisce tra chi produce e chi consuma.
Un deja-vu, una dinamica classica del capitalismo contemporaneo: chi coltiva il valore è chi guadagna meno.
2. IL COSTO DELLA PERFEZIONE
Le fragole Tochiaika sono coltivate in serre ipertecnologiche, selezionate con criteri rigorosi (se una fragola è leggermente asimmetrica, viene scartata), e spedite in aereo dall’altra parte del mondo. Bene bravi bis.
La logistica di un prodotto del genere è folle: ha senso far attraversare il pianeta a una fragola per poi venderla come lusso? (ma che differenza c’è rispetto a certi caffè, per esempio?)
3. IL POTERE DELL’HYPE
La fragola non è solo un prodotto. È un’esperienza instagrammabile, un contenuto per TikTok, un frammento di status digitale. Anzi, LO status digitale.
Ogni semino perfetto diventa un like.
Il suo prezzo non è quindi per nulla determinato dal valore agricolo, ma dal fatto che qualcuno è disposto a pagarlo per avere il diritto di mostrarlo agli altri.
Se avessimo chiesto a Marx cosa pensa di questa fragola, probabilmente ci avrebbe parlato della feticizzazione della merce: l’idea che un bene non venga più comprato per il suo uso, ma per il suo significato simbolico.
In altre parole: non compriamo più cose, compriamo idee. Simboli. E oggi, questi simboli, sono secondi voluttuari di presenza scenica online.
Non compriamo una fragola da 19$ per mangiarla (poi oh, sarà sicuramente buonissima) ma per partecipare al rito contemporaneo del lusso effimero.
(La tipa - non so nemmeno chi è - che ha condiviso un TikTok dove ne parla ha preso 1,2 MILIONI di mi piace)
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Più il mercato riesce a scollegare il valore d’uso dal valore simbolico, più i prezzi salgono. Il problema è che questa logica, che prima riguardava solo l’alta moda o i beni di lusso tradizionali, sta ormai conquistando tutto.
Il coefficiente di gravità e imbarazzo aumenta perché oggi c’è un elemento nuovo rispetto al passato: la dinamica social.
Instagram, TikTok e gli altri social network hanno cambiato per sempre il modo in cui percepiamo il lusso. Prima il valore di un oggetto era determinato dalla sua esclusività nel mondo fisico. Oggi è determinato dalla sua viralità nel mondo digitale.
Se qualcosa diventa virale, il suo valore sale.
Pensiamo a quella schifezza della Dubai Chocolate, fatta di zucchero e aromi (pistacchio? dove?) e venduta come l’oro (anche qui stiamo sui 100 € al kg ma nessuno ha fatto polemica - a parte me, in effetti - come per le sfrappole/chiacchiere di Massari).
Se un prodotto è mostrato dagli influencer giusti, diventa automaticamente più desiderabile, se riesce a inserirsi nelle dinamiche di hype e di scarsità percepita, il prezzo può raggiungere livelli impensabili.
E qui c’è il nodo: il nuovo lusso non è più possedere qualcosa di raro, ma possedere qualcosa di momentaneamente rilevante anche se per un minuto e dieci di un TikTok.
Quanto “convertirà” questa presenza? Sono curioso.
Una fragola da 19$ non è più cara di una borsa di lusso, è solo figlia di una dinamica diversa. Lo stesso vale per le sneakers in edizione limitata, per i cappellini Balenciaga da 500 euro, per le t-shirt che costano più di un mese di affitto a Bologna (spoiler, non poco).
L’hype costruisce il valore, e quando l’hype si spegne, il valore evapora.
Il capitalismo delle merci si è trasformato in un capitalismo dell’attenzione. Non importa quanto valga qualcosa. Importa solo quanta attenzione riesce a catturare.
Forse il motivo per cui i leoni da tastiera si indignano così tanto per una fragola da 19$ e una sfrappola da 100 € e non per un iPhone da 1.500€ è che il cibo è ancora visceralmente legato alla nostra quotidianità.
Ma sono facce della stessa medaglia.
Mentre la moda e la tecnologia sono già state completamente inglobate nella logica dell’hype, il cibo è rimasto, almeno in parte, uno spazio di resistenza.
Ma per quanto ancora?
Gli chef-star stanno già portando avanti il concetto di lusso gastronomico oltre ogni limite, le piattaforme stanno trasformando il cibo in contenuto, più che in nutrimento: quanto siamo ancora capaci di riconoscere il valore reale di ciò che consumiamo?
Compriamo “storytelling”, altrimenti non si spiega il successo di certe tendenze e fenomeni. E di certi chef e dei loro ristoranti.
Solo una cosa, riguardo il caffè. Le fragole locali da 9 euro al chilo, qui, sono buone in maniera commovente, e crescono altrettanto bene che in Giappone, anzi suppongo meglio. Far arrivare il caffè dall'altra parte del mondo non è la stessa cosa che pagare una fragola €19. Il caffè è davvero una pianta delicatissima, che cresce soltanto in determinate condizioni, e soprattutto si può lavorare solo in determinate condizioni. Ho iniziato a bere specialty coffee non per fotografare i miei caffè filtro su Instagram, ma perché il bollino fairtrade non mi dava adeguate garanzie, e gli specialty coffee che compro invece vengono da filiera cortissima, potrei telefonare al produttore domani, se sapessi parlare in spagnolo (e se non rischiassi di essere mandata a quel paese perché gli sto facendo perdere tempo con le mie ubbie di trasparenza). Raramente vado sopra i 40 euro al chilo. Il commodity coffee spesso fa veramente schifo, e quanto alle condizioni di lavoro sappiamo bene quali sono. Francamente non mi sento di comprarlo dicendomi che tanto è tutto capitalismo, sia il commodity che lo specialty coffee.